Lotar Sanchez è un operatore sociale con la passione della scrittura che ha partecipato alla prima edizione del nostro workshop “Diffondere le parole”, all’interno del quale ha prodotto un video consultabile nella sezione “Materiali” di questo sito. Nato in Ecuador, vive in Italia da tanti anni e attualmente risiede a Firenze, dove ha ambientato il suo romanzo “Il delitto delle cascine” (Porto Seguro Editore, Firenze 2020). Usando come sfondo il mondo dell’accoglienza dei minori non accompagnati, in cui ha lavorato per diversi anni, nel suo libro Lotar parla della percezione dello straniero e dell’immigrato nella società italiana.
Questa è la recensione che ne ha fatto Serena Naldini, giornalista toscana residente a Torino:
Ho conosciuto Lotar Sanchez Arcos a Firenze nei primi anni Duemila, quando coordinavo alcuni servizi educativi per bambini e ragazzi. In quel momento cercavamo un educatore, ma abbiamo trovato molto di più. Lotar ha portato in mezzo a un ambiente sobriamente europeo, lo sguardo un po’ magico di un cantastorie del Sudamerica. Il Giardino Nidiaci nel rione di San Frediano, cuore di Firenze – perché è lì che Lotar ha cominciato a lavorare appena arrivato in Italia – si è trasformato in un laboratorio effervescente dove le cose si rigeneravano per diventare qualcos’altro.
Capitava alla carta di giornale trasformata in maschere di cartapesta gigantesche, lucide e colorate per fare festa nel quartiere.
Capitava alla gente che entrava magari con la voglia di polemizzare e usciva con addosso qualcosa di diverso che assomigliava alla fiducia.
E poi capitava ai fatti, alle azioni, che si trasformavano in storie. Quando sei un educatore, quello che accade non ti basta mai, ti servono anche le parole per raccontarlo. E se, assieme alle parole, si è capaci di sfornare anche maschere di cartapesta gigantesche, lucide e colorate, la narrazione prende la forma di uno spettacolo che scorre spontaneo come un fiume, lento e dirompente.
Ecco; è un po’ come un fiume, spontaneo, lento e dirompente, questo primo libro di Lotar Sanchez, Il delitto delle Cascine. La trama noir, divertente e ben costruita, trascina il lettore grazie a personaggi ben tratteggiati e a un linguaggio lineare e diretto, capace di impreziosirsi di consapevolezza senza perdere mai nulla in termini di autenticità. Come quando, in poche righe, l’autore spiega perché si possa scegliere di lasciare il proprio paese: “Altrimenti per lui il destino sarebbe stato scritto: un diploma e poi la povertà, la ristrettezza mentale, l’orizzonte sotto la sedia.”
Lo sfondo sul quale si dipanano le vicende del libro proviene dalla vita attuale di Lotar, che non ha mai cambiato mestiere da quando ha messo per la prima volta piede al Giardino Nidiaci. Il contesto è cambiato radicalmente – lavora in un centro di accoglienza – e anche i destinatari del suo lavoro, perché adesso i ragazzi di cui si occupa sono migranti minorenni.
Uno dei maggiori meriti di questo libro è quello di rappresentare senza fronzoli un mondo parallelo, quello dei servizi per migranti gestiti dalle cooperative sociali, un mondo che per prudenza o per comodità viene spesso lasciato nell’ombra a meno che non diventi utile a qualche scopo politico. Una dimensione a parte, in cui vive Lamin, il protagonista del libro, un diciassettenne del Gambia, che “di italiani ne conosceva pochi: qualche poliziotto che a forza di incontrarlo lo chiamava per cognome, gli educatori del centro di accoglienza dove viveva, la sua vecchia tutrice volontaria, gli insegnanti di italiano. Tutta gente che lavorava con gli stranieri, gente normale no.” Gente normale, quella non la conosceva.
Attraverso la finzione narrativa, la gente che Lamin definisce “normale” può introdursi in punta di piedi e senza scalpore nel quotidiano di una struttura di accoglienza, nelle storie di alcuni di questi giovanissimi esploratori di nuove terre che chiamiamo “minori non accompagnati”, nella pratica educativa di questi luoghi sconosciuti e guardati con sospetto da molte persone.
“Era tutto un viaggio in cui si può andare solo avanti,” è il pensiero di Sara, l’educatrice, “[un viaggio] in cui la ricchezza sono gli incontri che allargano gli orizzonti […] Nessuno rimane uguale a se stesso durante il viaggio.” Lascio Sara con l’accendino in mano che, prima di mettersi a pulire il cortile con i ragazzi, si pregusta l’ultima sigaretta del libro, e non posso fare a meno di pensare a Paulo Freire, il pedagogista brasiliano che ha teorizzato la pedagogia degli oppressi. “Nessuno educa nessuno, nessuno si educa da solo,” ha scritto, “gli uomini si educano insieme, con la mediazione del mondo”. Perché educare non significa trasmettere conoscenze, ma crescere insieme generando cambiamenti significativi nelle persone e nella realtà.