Samir Galal Mohamed, poeta marchigiano-egiziano di cui potete leggere la scheda qui, ha contribuito con un suo testo inedito al volume collettivo “La radice dell’inchiostro“, uscito per Argo Editore il 18 marzo. Nel testo, curato da Giorgiomaria Cornelio, più di cinquanta voci della poesia e della letteratura italiane dialogano e si confrontano sui diversi modi di affrontare il linguaggio poetico. Potete leggere qui di seguito un estratto dal contributo di Samir Galal Mohamed, mentre l’articolo originale lo trovate su “Antinomie – Scritture e immagini“.
C’è una fotografia di Robert Doisneau, L’encrier de porcelaine, oggi custodita al Musée National de l’Éducation di Parigi. Lo scatto è stato realizzato nel 1938, misura 15,1 centimetri di altezza per 10,5 di larghezza, ed è in bianco e nero. Ci troviamo all’interno di una numerosa classe maschile di una scuola elementare francese. In primo piano, il nostro giovanissimo protagonista, il soggetto essenziale dell’immagine, minuto e vivace.
Un intempestivo antieroe della comunicazione intinge con premura il pennino in un calamaio di porcellana: lo fa per inaugurare il processo di significazione, per divenire e rendere attuale, per produrre, dare luogo e dimora all’espressione. Un’espressione a un tempo provvisoria e persistente: provvisoria nella misura in cui il segno impresso resisterà sul foglio, e nella misura in cui quel foglio gli resisterà e resisterà al tempo; persistente tanto quanto la possibilità, per noi, di poter osservare – ancora – quell’immagine, su carta e online, conservata in un catalogo materiale, caricata in un archivio digitale.
Sul banco di scuola, il quaderno aperto sulle pagine, due facciate attraversate – intersecate – da una consistente linea d’inchiostro nero (ma potremmo anche sbagliarci). La mano sinistra poggia sulla rispettiva parte del fascicolo, sorregge l’azione del nostro, ne sostiene e soccorre le movenze precarie, impacciate. L’attenzione e, allo stesso modo, la tensione sono mirabilmente percepibili. Il busto è proteso in avanti, curvo sul banco, supporta una testa pronta all’immersione: quale? Quella del piccolo, o del piccolo pennino? Il piacere del di-segno sta per realizzarsi, è quasi al suo massimo: prepara, dunque è preliminare, al di-segno del piacere. Carta, inchiostro, calamaio, pennino, e ancora il banco, i compagni, la classe intera, i muri, le porte, i corridoi, l’entrata principale, il paesaggio che si apre e si dispiega.
Virtuale è, precisamente, ciò che reale lo è già, ma in una dimensione spazio-temporale suppletiva, ulteriore dal presente appena compiutosi; un presente all’interno del quale il virtuale esercita una pressione infinitesimale, diversa da quella imposta dal possibile, che si articola sotto al segno dell’aleatorietà della previsione. In questa fotografia, come in ogni immagine, non è difficile pensare a quel virtuale. Ciò non significa che il virtuale sia dato una volta, una volta soltanto e per tutte. Il virtuale non è nella relazione: virtuale è questa relazione, il legame che intercorre tra le singolarità dei gesti dello scolaro, tra le singolarità che concorrono alla costruzione dell’espressione sul suo viso, e il personaggio in secondo piano, non meno importante, non meno decisivo.
Infatti, sulla sinistra, alle spalle del nostro, dal punto di vista della composizione, ma alla sua destra nella stessa fila di banchi, un altro piccolo studente osserva curioso, diffidente, ammirato, l’antieroe della grafia. Il virtuale, al pari del segno, si sottrae al binomio atto/potenza, poiché in esso non si costituisce già questa coppia e, d’altra parte, non è già costituito da questa coppia. Il segno, come il virtuale: «egli danza».